"Un pensiero giornaliero"

Noi siam venuti al loco ov'i' t' ho detto che tu vedrai le genti dolorose c' hanno perduto il ben de l'intelletto

23 luglio 2007

Un chierichetto di destra



Marco Travaglio è un giornalista di granitiche certezze: ne ha diverse che si riducono a una sola: i mali del mondo si sanano con la carcerazione che si spera sia definitiva. Il corollario è che Silvio Berlusconi, essendo il peggiore dei mali, sarà alla fine acciuffato dai giudici e terminerà al fresco i suoi giorni.


Travaglio ha consacrato gli ultimi 15 anni e consacrerà i venturi per aiutare le toghe a conseguire l’obiettivo con articoli, libri, sermoni televisivi. Marco è un aitante giovanotto di 42 anni con un viso spiritualmente affilato e l’aspetto generale del cherubino. Quest’anno è apparso in Rai come compare del collega Michele Santoro nella trasmissione Anno Zero. Con tono gelido e sorriso di sufficienza, apriva la puntata declamando pensierini in forma di lettera, col piglio di un appello a reti unificate del presidente Putin, cui vagamente somiglia. In sala silenzio di tomba, sul video un trepidante Santoro ossigenato in attesa di chissà quali rivelazioni. Marco apriva le labbra ben disegnate e dava sfogo alle proprie idiosincrasie sull’Italia con l’aria dell’alieno capitato nel Paese sbagliato. Ha raggiunto il culmine con una lettera a Indro Montanelli nell’Aldilà. «Caro direttore... ora che sei in Paradiso, immagino che tu...» e così via, chiamando il defunto a testimone delle brutture di quaggiù: Berlusconi, Andreotti, Giuliano Ferrara, Papa Ratzinger, i preti pedofili, l’opposizione ai matrimoni gay. Montanelli ha taciuto come l’Apollo delfico e la Pizia-Travaglio gli ha messo in bocca quello che pareva a lui. Vizio di Marco è, infatti, non dire mai ciò che pensa, trincerandosi dietro le opinioni di presunte autorità: la massa delle intemerate travagliesche sono farina del sacco di discussi magistrati. Ciò che i giudici dicono è per Marco oro colato. Non sceglie, riporta. I suoi articoli e i suoi libri corposi sono la trasposizione in italiano del gergo delle carte bollate. Questo amanuense delle Procure passa in cancelleria, fa incetta di documenti tribunalizi e li travasa nei suoi innumerevoli scritti al ciclostile. L’arte di Travaglio consiste nel riportare sentenze e requisitorie, cospargendole di malignità per mettere in cattiva luce chi odia e di sapienti omissioni per salvare chi ama. Se deve scrivere che sono state archiviate le inchieste sul Cav per le bombe del ’92 dice: «Archiviate per scadenza dei termini, ma con motivazioni durissime». Quando però riferisce che il pm De Pasquale (pool milanese di Mani pulite) è stato assolto dall’accusa di avere indotto Gabriele Cagliari al suicidio per avergli promesso la scarcerazione, andando poi al mare e lasciandolo in galera, scrive: «È stato completamente scagionato da quei sospetti. Completamente» e tace che gli ispettori ministeriali hanno invece osservato: «...il De Pasquale ha tenuto comportamenti certamente discutibili... È mancata quella prudenza, misura, serietà che deve avere chi esercita il potere di incidere sulla libertà altrui». Travaglio nelle mille apparizioni tv ripete a pappagallo dati e circostanze che lì per lì nessuno può controllare ma che, passati al vaglio, rivelano spesso parecchi trucchi. Mancando di pensiero proprio, Travaglio ripete ciò che sente dire dai pm amici. Un tempo pendeva dalle labbra del procuratore di Torino, Marcello Maddalena. Oggi da quelle del pm milanese Piercamillo Davigo. Inoltre, detesta i contraddittori. Una volta che doveva presentare un suo libro antiberlusconiano a Cortina con i pm Caselli e Davigo, rifiutò di fare partecipare al dibattito sia pure una sola voce dissenziente, bocciando tutti i nomi proposti dagli organizzatori. «Che io sappia - spiegò irridente - quando Falcone veniva invitato a parlare di mafia nessuno gli chiedeva - in nome dell’equilibrio politico culturale - di portarsi dietro Michele Greco e Totò Riina». Come dire: io, Gomez e i due pm siamo la verità rivelata, chi non la pensa come noi è mafioso. Grottesco e ignobile, ma lui neanche se ne accorge. Travaglio, ormai, scimmiotta Travaglio. È prigioniero del suo personaggio e del benessere che gli ha procurato. Nel «dagli» al Cav ha trovato la gallina dalle uova d’oro.

I suoi libri, inzeppati di atti giudiziari, vanno a ruba. Scrive anche sul settimanale femminile «A» diretto da Maria Latella, biografa e confidente di Veronica Lario, moglie del Cav. Educato dai salesiani, ha debuttato a metà anni ’80 come cronista della rivista diocesana, Il nostro tempo. Marchino, poco più che ventenne, fungeva da caporedattore della piccola redazione, facendo i titoli e impaginando i «pezzi». Era già allora un portatore di certezze, ma opposte a quelle odierne. Spaziavano dall’anticomunismo, all’insofferenza verso buonismi e perdonismi sinistrorsi. In politica, sembrava stare a cavallo tra Msi e la Dc più conservatrice. Nelle guerre tra Berlusconi e l’ing. De Benedetti (caso Sme, ecc), si schierava col Cav. Nelle cose di Chiesa era tradizionalista e sostenitore della messa in latino. Era, insomma, un chierichetto della destra cattolica. Già allora documentatissimo accumulava ritagli di giornale e spulciava faldoni; come oggi, era austero e astemio. Amico di Giovanni Arpino, collaboratore del Giornale, lo tampinò finché non fu presentato a Montanelli. Così, divenne corrispondente in seconda del Giornale da Torino. Si occupava soprattutto di sport. Scrisse Lo stupidario del calcio, sbertucciando i cronisti sportivi. Era, dunque, avviato a una serena carriera di giornalista rilassato, quando vennero Tangentopoli e la rottura tra Montanelli e Berlusconi. Marco seguì il direttore alla Voce e cominciò a odiare il Cav per interposto Indro. Giustizialista si scoprì invece abbeverandosi al giudice Maddalena, anche lui del giro montanelliano. Ebbe successo e si innamorò di sé stesso.
Liberamente tratto da un articolo di G. Perna

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